Fabio Scolari: “La Cina riafferma ancora oggi la sua natura marxista”

cinaPubblichiamo di seguito l’intervista al nostro collaboratore Fabio Scolari, realizzata da Andrea Marsiletti per la testata italiana “ParmaDaily”. Lo scambio è avvenuto a margine di una conferenza tenutasi a Milano intitolata “Attualità del socialismo in Asia” in cui Scolari era relatore e dove sono state affrontate le varie realtà di sviluppo del socialismo in Cina, Laos, Vietnam e Corea del Nord.

Fabio, come ti è venuta la passione per la Cina?

Sarei propenso a far coincidere la nascita della mia passione per la Repubblica Popolare Cinese con un percorso di maturazione ideologica molto originale, che si è misurato in primo luogo con la filosofia classica tedesca ed in particolare con il sistema filosofico di Hegel. Illustri studiosi marxisti prima di me hanno attraversato questa tappa intermedia. A tal proposito proprio Togliatti la indicava come “la via maestra”, ed innegabilmente tutt’oggi il mio modo di leggere Marx porta con sé diversi elementi che derivano da questa mia formazione giovanile.

Schematizzando posso indicare alcuni punti specifici: innanzitutto una comprensione dialettica del materialismo storico mi ha reso immune da visioni rozzamente meccanicistiche ed economicistiche dell’evoluzione storica (tipiche della II internazionale). Questo primo aspetto, che potrebbe sembrare all’apparenza eccessivamente teoricistico, mi ha permesso di avvicinare temi quali l’imperialismo, la condizione dei popoli del terzo mondo abbandonando precocemente un certo eurocentrismo che invece sembra caratterizzare larga parte della sinistra europea.

Secondariamente, l’aver studiato prima il maestro (Hegel) e successivamente l’allievo (Marx) mi ha portato a recepire maggiormente l’importanza della nozione di “contraddizione”, senza la quale difficilmente potremmo comprendere i processi di sviluppo storico e sociale.

Mi pare quindi già evidente come la Cina, proprio per la sua particolarità di essere ancora oggi guidata da un Partito Comunista, che non solo come affermano i maligni mantiene una “liturgia comunista” per sacralizzare il potere di una élite di burocrati, ma che orgogliosamente e costantemente riafferma la sua natura marxista e rivoluzionaria, sia stata per me un iniziale tema di confronto teorico e politico.

Proprio l’emersione economica del gigante asiatico è indicata ormai dai più avveduti commentatori come la principale contraddizione all’interno di un sistema mondiale ridisegnato, soprattutto a seguito dell’inglorioso crollo del blocco socialista sovietico, a misura delle volontà egemoniche dell’imperialismo statunitense e dei suoi alleati europei. In conclusione, anche solo per quest’ultimo aspetto ritengo che la “questione cinese” debba essere discussa con maggiore serietà nel campo della seppur residuale “sinistra radicale” italiana.

Dimmi la verità: la Cina è ancora comunista o siete voi “irriducibili” che volete vedere ancora del “comunismo reale” per non prende atto di un altro fallimento? Cosa è rimasto di comunista in Cina?

Se mi è permesso vorrei partire da una citazione di Lenin. Come tutti sanno, a seguito delle distruzioni provocate dalla I guerra mondiale e dalla guerra civile contro le truppe bianche il neonato governo bolscevico fu costretto a reintrodurre meccanismi di mercato per risollevare un’economia al collasso (sono gli anni della NEP). Ebbene il leader comunista nei riguardi dell’imposta in natura scriveva: “Libertà di commercio significa libertà per il capitalismo, ma significa al tempo stesso una nuova forma di capitalismo. Vale a dire che noi, in una certa misura, ricreiamo il capitalismo. E lo facciamo del tutto apertamente. Si tratta del capitalismo di Stato. Ma capitalismo di Stato in una società in cui il potere appartiene al capitale, e capitalismo di Stato in uno Stato proletario sono due concetti diversi. In uno Stato capitalistico, capitalismo di Stato significa capitalismo riconosciuto e controllato dallo Stato a vantaggio della borghesia e contro il proletariato. Nello Stato proletario, vien fatta la stessa cosa a vantaggio della classe operaia e allo scopo di resistere alla borghesia ancora forte e di lottare contro di essa. È ovvio che dovremo cedere molte cose alla borghesia e al capitale straniero. Pur non snazionalizzando nulla, cederemo ai capitalisti stranieri miniere, boschi, pozzi petroliferi, per ottenere in cambio prodotti industriali, macchine, ecc, per ricostruire in tal modo la nostra industria”.

Ovviamente premetto, sapendo di far arrabbiare qualche “ortodosso”, che sarebbe assurdo voler paragonare puntigliosamente i provvedimenti adottati dai comunisti russi in quel periodo con il processo di riforma cinese iniziato da Deng Xiaoping, proprio per il mutato contesto storico pensiamo solamente a un fenomeno come quella della globalizzazione. Ciò che invece possiamo mettere in luce sono due aspetti: il primo è un’ispirazione di governo anti-dogmatica e anche in un certo senso spregiudicata che ha caratterizzato i primi anni post-rivoluzionari in Russia e che in forme diverse caratterizza i gruppi dirigenti cinesi succedutisi dopo la morte di Mao Zedong. Il secondo è come proprio lo stesso Lenin si trovò negli ultimi anni della sua vita a ripensare larga parte della strategia rivoluzionaria attraverso cui voleva condurre il suo Paese al socialismo. Non mi addentro sui motivi interni e internazionali che interruppero questo processo di revisione teorica e pratica, in favore di codificazioni rigide ed anche abbastanza semplicistiche. Ciò che i comunisti cinesi però hanno recepito adeguatamente è il filo conduttore di una riflessione su come strumenti di mercato possano essere sviluppati all’interno di una economia pianificata, favorendo lo sviluppo delle forze produttive e l’innalzamento costante del tenore di vita dei lavoratori.

Inoltre, e questo sfugge ai critici massimalisti e rivoluzionari di sinistra, in una nazione che si è avviata a superare anche gradualmente il modo di produzione capitalistico potere politico ed economico non coincidono più. Oggi nella Cina popolare possiamo osservare un sistema politico incentrato sul Partito Comunista e che quindi ha definitivamente espropriato del potere politico la borghesia, ma al contempo vengono mantenuti spazi in cui sviluppare la libera iniziativa privata, favorendo una più rapida crescita economica necessaria per liberare lo stato asiatico dal sottosviluppo a cui i colonialisti occidentali avevano ridotto uno degli imperi più prosperi del mondo antico.

La Rivoluzione Culturale di Mao è stata un fallimento?

In questo caso faccio mie le parole di Deng Xiaoping, il quale disse a Oriana Fallaci, giunta in Cina per intervistarlo, in relazione agli anni bui della Rivoluzione Culturale: “Insomma, ancora una volta, il presidente Mao sbagliò. Sbagliò anche nello scegliere l’obiettivo da colpire, disse che l’obiettivo dovevano essere i seguaci dei capitalisti, i companons de route dei capitalisti che esistevano nel partito e con questa accusa fece attaccare un gran numero di veterani d’alto livello: uomini che non solo avevano contribuito alla rivoluzione in modo egregio ma che avevano profonda esperienza. E tra costoro c’era il premier Liu Sciao-ci, poi arrestato ed espulso dal partito. Risultato, tutti i quadri di partito furono decimati. Uno o due anni prima di morire il presidente Mao lo riconobbe. Fu quando disse che la rivoluzione culturale aveva commesso due sbagli: decimare i quadri e provocare una guerra civile a largo raggio”. Segnalo inoltre che chi volesse approfondire la figura del leader cinese in quel periodo può leggere il libro”Deng Xiaoping e la Rivoluzione Culturale” edito da Rizzoli nel 2003 scritto da Deng Rong.

In molti ambienti di sinistra il riformista Deng Xiaoping è liquidato, quando va bene, come un “traditore” della Cina di Mao, altrimenti come un “infame”. Che opinione hai del suo operato?

Sicuramente la sua figura è tra le più controverse e le più enigmatiche nella storia del movimento comunista. Io lo reputo un grande innovatore e se oggi la Repubblica Popolare Cinese è il centro propulsore di una possibile alleanza internazionale che limiti da un lato l’imperialismo statunitense mentre dall’altro offre sostegno economico, politico e militare a tutti gli stati progressisti o anti imperialisti lo dobbiamo solamente alla sua lungimiranza.

Aver chiuso con metodi di direzione politici estremistici ed eccessivamente volontaristici, anche se, nel turbolento periodo che seguì gli avvenimenti che portarono alla disgregazione dell’Unione Sovietica, dovette far fronte ad avvenimenti inaspettati, lo colloca sicuramente tra le personalità politiche più importanti del secolo scorso. Voglio solo portare un piccolo esempio della grandezza di Deng Xiaoping che mi ha sempre colpito. Come molti sanno i rapporti tra i comunisti cinesi ed italiani non furono molto idilliaci nella seconda metà del ‘900. Mentre il gruppo dirigente del PCI nel nostro Paese cercava di formulare nuove strategie di avanzata verso il socialismo tenendo conto di un contesto politico ed economico profondamente diverso da quello cinese, Mao non mancò di lesinare critiche, anatemi e accuse. Negli anni che portarono Enrico Berlinguer a un maggiore attivismo internazionale recidendo in parte il legame tra il Partito Comunista Italiano e l’Unione Sovietica, un momento importante fu la riapertura dei rapporti con la Cina di Deng Xiaoping. Dopo il loro incontro, sul tema dell’eurocomunismo, tanto osteggiato dai sovietici, il presidente cinese disse: “Se l’eurocomunismo sia giusto o meno non spetta ad estranei giudicarlo, né spetta ad altri pronunciarvisi. Spetta solo ai partiti e ai popoli dell’Europa stessa, e in ultima analisi sarà la loro pratica a fornire la risposta. Non possiamo criticare chi si dedica alla ricerca di una propria via, a partire dalle proprie condizioni concrete. Anche se essi avessero torto, spetta a loro trarre il bilancio delle loro esperienze ed esplorare altre vie ancora.

La Corea del Nord di Kim Jong Un oggi rappresenta l’avanguardia del Socialismo che non accetta compromessi con il Capitalismo. Alla fine credi sarà costretto a piegarsi anche lui al modello “riformista” cinese?

Definire la Corea del Nord l’avanguardia del socialismo mi pare eccessivo e ricalca un modo di pensare poco dialettico e schematico. Nel mondo esistono diversi paesi che cercano di lasciarsi alle spalle un sistema economico, che oggi vive una delle peggiori crisi della sua storia. La Corea Popolare fa parte a pieno titolo di questo gruppo senza però occupare una posizione particolare dal momento che non esistono gerarchie definite.

Non spetta a me indicare ai compagni coreani la strada migliore per raggiungere la meta della società comunista, anche perché la lotta per una nuova forma di organizzazione sociale non può prescindere dalla conoscenza della realtà concreta di ogni nazione. Certo che, se mi è permesso, guardo con profonda apprensione alcune forme degenerative che si sono imposte nel costume di quel partito: dal culto della personalità a quella strana successione familiare. Dalle notizie che possiedo, so che una delle preoccupazioni maggiori è relativa allo stato dell’economia, sicuramente nel campo dell’edificazione economica l’esperienza cinese può fornire una base di studio molto approfondita.

Inoltre il socialismo non è migliore del capitalismo solo perché distribuisce in modo più equo la ricchezza prodotta dal lavoro, ma anche perché adeguando i rapporti di produzione a forze produttive sempre più sociali permetterebbe uno sviluppo economico più accelerato e armonico. A questa maggiore crescita economica deve essere necessariamente associata un ampliamento delle forme di partecipazione popolare, superando definitivamente il regno della pura formalità dei diritti a cui i cittadini delle nazioni liberali sono condannati.

Parafrasando Lenin e Lukács potrei definire il socialismo come: maggiore sviluppo economico collegato all’approfondimento di una “democrazia della vita quotidiana”. Sia in Cina che in Corea del Nord non vedo “economie socialiste mature” o realizzate, ma stati che si trovano in forme diverse nella prima fase di costruzione di un’economia nuova. In conclusione, vorrei che tutti i lettori comprendessero che la transizione tra sistemi soci-economici differenti occuperà un’epoca storica, non basta la statalizzazione integrale dei mezzi di produzione per sostenere di aver realizzato un’economia socialista.

Andrea Marsiletti

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